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Racconto apparso anche su Caffè Letterario
Testo della trasmissione Mess is more del 2/12/2022 su Libertalia Radio.
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Panorami che rapidamente scorrono oltre il vetro impolverato del finestrino. Meyer li osserva fintanto che la messa a fuoco gli consente di delineare le figure, gli oggetti che ingombrano la scena. Eppure lo distrae quell’odore che da ore lo accompagna in quel viaggio. Dovesse definirlo direbbe solo sentor di rotaia, ma lui e il suo lavoro non possono fermarsi a quello, meritano una formulazione minuta di ingredienti, dosi, diluizioni. È la lucida scoperta di una immagine ben precisa, di un luogo vissuto in prima persona. Quando? Dove?
Roma gli viene di rispondere. Sì, è un ragazzino e le lenzuola usa e getta sono ancora arrotolate alle gambe. Fa caldo e il treno sta correndo, mentre fuori da poco albeggia. La sua cuccetta è la più alta, gli altri a veder bene dormono o almeno fanno finta. Hanno comunque gli occhi chiusi e alcuni stanno in allerta, l’orecchio teso a sorvegliare la porta. Se si apre potrebbe essere un ladro, aveva detto la signora bella che ha di fronte. Nella penombra nota che ha la camicetta mezza aperta, il seno ingabbiato dal pizzo bianco si muove docile al ritmo del fiato lento del dormiveglia. La gonna corta giace in quell’angolo vicino ai piedi. Il lenzuolo la copre, seppur riveli molto delle sue forme incautamente poco nascoste.
Meyer si guarda intorno, pensa che oltre all’odore qualcos’altro deve avere acceso i suoi sensi. Tre file avanti i capelli lunghi raccolti in una coda rivelano la donna che nel corridoio, due fermate prima, deve aver colpito il suo immaginario. E ancora una volta prova a rintracciare il profumo di quella scena per raccontarne la storia. Una fragranza che sembra mescolarsi all’aroma di rotaia, che persistendo discreta illumina brani di una vita che negli anni lo avevano legato a donne anche non troppo avvenenti, ma intense nel loro modo di profumare i corpi e le notti. Aveva un nome per lui quel profumo, solo uno.
Amber gli affiora in mente. Quel nome. Mi chiamo Amber, le aveva detto la donna quando lui l’aveva chiamata signora. Lei aveva steso le gambe e chiuso gli occhi, ma povero lui che doveva andare in bagno. S’era trattenuto per quasi un’ora e alla fine doveva andare. Così s’era deciso a chiedere permesso. Scusi signora, ma devo passare. Amber aveva sorriso. Mi fai sentir vecchia, ho un nipote della tua età in fondo e mi chiama Amber anche lui. Passandole accanto pensò che Ambra era esattamente il nome adatto a quel profumo e al colore della pelle liscia che il sistemar le gambe fece balenar ai suoi occhi.
Meyer si alza per guadagnare qualche fila e osservare meglio la donna. In realtà più della figura vuole percepirne il profumo, ma la rotaia, il pietrisco arido tra le traversine arse, copre troppo, ingombra l’olfatto, confonde. Dovrebbe avvicinarsi ancora, ma è tutto occupato intorno. Il treno fa una curva molto larga, piega quasi di novanta gradi la sua traiettoria. La sua testa asseconda il moto, si poggia dolcemente al finestrino, lui chiude gli occhi. Una vita la sua a provar di ricreare quel profumo. A mescolare essenze che mai avevano riprodotto quel movimento, quel fruscio di pelle che d’un tratto aveva scostato il telo bianco ed esposto le gambe al suo sguardo. Quell’ambra che mai aveva più percepito in una donna. Lei aveva sorriso appena, non vista anche dai suoi occhi, scostando ancora un po’ il lembo rozzo del telo, mostrando un’ombra d’inguine appena.
Una galleria, meglio, una sequenza di gallerie, accende e spegne il mondo fuori dal vagone, annega nel frastuono di ferraglia il rumore discreto di chi discute per ammazzare il tempo. Un sentore umido si mescola ancora nell’aria che si raffredda di colpo ogni volta che il treno si tuffa nei tunnel, evaporando subito dopo l’uscita. Un uomo lascia il posto accanto alla donna per prepararsi alla prossima fermata. È il momento pensa. Posso? Le dice Meyer. Che star seduto contromano mi disturba. La donna scosta un poco le gambe per farlo passare, ma rimane assorta sullo schermo acceso del cellulare.
Sembra non accorgersi Amber che i suoi occhi sono aperti nella penombra della cuccetta e seguono le sue mani scorrere su quella pelle, accarezzare con lentezza l’interno coscia, prima di riprendere la gonna dal suo angolo e con destrezza indossarla. La sua cura è posta nello spostar fuori dal lenzuolo la gamba più vicina alla parete che dal basso poco o nulla mostra. Dal basso. Ma dal suo punto d’osservazione ogni mossa, ogni piega di pelle sulla lingerie avorio, scorre con una lentezza che intiepidisce il suo basso ventre e dilata pupille e narici. Ecco ora, ora lui finalmente percepisce il profumo.
Chiude gli occhi Meyer e concentra ogni sua energia vitale su quella fragranza. È volontà di vita la sua, è sopravvivenza animale più che desiderio. E finalmente, giusto mentre la donna con un gesto innocuo carezza una gamba sfregando appena sul nylon della calza, proprio ora due ingredienti si materializzano nei suoi ricordi. Due mescolanze che sono esattamente nella domanda: che profumo è? La donna quasi colta in fragrante lo osserva perplessa. Che profumo è, ripete Meyer, la prego.
Amber. La donna lascia in bilico quel nome. Di Venchyé ripetono insieme. Lei e Meyer, insieme.
Due anni fa, dice Meyer, lo creai per la nuova linea. La donna ora lo guarda ammirata. Lo ha fatto lei? Chiede. Davvero? Chiede. Meyer fa un gesto con la testa, un sì. Ma non è solo questo che adesso si sente. Non solo. C’è dell’altro che non capisco, che non ho mai capito. La donna sembra stupita. Prende dalla borsetta un flacone bruno e lo mostra a Meyer. Ma è questo, è proprio l’Amber. Dice, e spuzza sulla mano di Meyer un piccolo alone umido. Lui lo osserva, come se nelle tenui gocce ci fosse scritto un ricordo e lo annusa. E no, pensa, la sua pelle ruvida mescola il sentore di uomo maturo a quel vecchio amico di infanzia. Manca la pelle della donna, la carezza sull’ansa dell’inguine al chiarore dell’alba nella cuccetta di seconda classe in viaggio verso Roma. Manca il sussulto, quando s’accorge d’essere visto mentre Amber si riveste, con malizia estenuante e voluta. Ma sorride la donna. E sorride al ragazzino di fronte, scoperto dai loro sguardi a scrutare le forme di Amber, che si muove in quell’ombra, diventando profumo di rotaia essa stessa.
La donna si alza, si liscia la gonna che lo star seduta ha tirato un po’ su. Sono molto contenta di aver conosciuto chi ha creato il profumo che adoro, dice a Meyer. Davvero contenta, spero in futuro di provarne degli altri. Raccontano ricordi, giusto? Meyer sorride, mestamente in realtà, poi guarda il ragazzo di fronte arrossire quando con un gesto per nulla materno la donna gli carezza una guancia, scivolando sinuosa verso l’uscita.
Sorride Meyer, guarda Amber rivestirsi nell’ombra e capisce che quel profumo non potrà esistere mai.
[NOTA]
Amber in armeno (ahm-be’r) significa nuvole. Come facevamo da bambini quando ascoltavamo i brani in inglese non comprendendo le parole, l’ho inserito perché mi piaceva l’atmosfera. Come facevamo da bambini ho appiccicato a qui suoni in armeno la storia di un bambino che inizia a guardare le donne e che quello sguardo prova a custodire invano in un profumo.
In realtà il testo del brano parla d’altro. Purtroppo.